TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO 
                        Sezione terza penale 
 
    Il  giudice,  dott.  Paolo  Gallo,  ha  pronunciato  la  seguente
ordinanza nella causa penale contro D.F.  A.,  nato  il  ...  a  ...,
elettivamente domiciliato ex art. 161 c.p.p. in ..., via  ...  difeso
d'ufficio dall'Avv. Giuseppe  Antonio  Damini  del  Foro  di  Torino,
libero presente imputato del reato di cui all'art. 628 comma 2 codice
penale perche', dopo aver indebitamente  sottratto  dodici  bottiglie
d'olio di oliva «De Cecco» all'interno del supermercato «...» sito in
Torino via ..., adoperava violenza - consistita nello sferrare  colpi
agli arti superiori e poi calci contro l'addetto alla vigilanza B. D.
- e minaccia consistita nel dirgli «se chiami la polizia torno  e  ti
ammazzo con le  mie  mani  e  tu  qui  non  ci  lavorerai  piu'»  per
assicurarsi  il  possesso  delle  cose  sottratte  o   comunque   per
procurarsi l'impunita'. 
    Torino, 22 settembre 2019 
    Recidivo reiterato. 
    Verso le ore 00,20 del 22 settembre 2019  l'odierno  imputato  fu
arrestato nella flagranza del reato di cui in epigrafe. 
    Il giorno dopo il D. F. fu presentato in udienza per la convalida
dell'arresto e il contestuale giudizio direttissimo. 
    Convalidato l'arresto, e decorso il termine  a  difesa  richiesto
subito dopo, l'imputato ha oggi chiesto di essere giudicato con  rito
abbreviato. Il pubblico ministero ha prodotto gli  atti  del  proprio
fascicolo e le  parti  hanno  presentato  le  rispettive  conclusioni
orali. 
    Gli atti utilizzabili per la decisione si riducono al verbale  di
sommarie  informazioni  rese  dall'addetto  alla   sorveglianza   del
supermercato, B.  D.,  e  dalle  immagini  «girate»  dal  sistema  di
videosorveglianza presente nel supermercato.  Il  primo  ha  riferito
agli agenti quanto segue: 
        «Intorno  alle  23,45  notavo  un  soggetto  di   corporatura
robusta, ... il  quale  spingeva  un  cestino  utilizzando  la  porta
d'ingresso riservata ai carrelli per poi  abbassarsi  ed  uscire  lui
stesso dalla stessa porta. 
    Nel cestino notavo che vi era della merce e  l'uomo  si  dirigeva
verso l'uscita del supermercato portando al seguito  il  cestino;  mi
avvicinavo  per  informarlo  che  il  cestino   non   poteva   uscire
dall'esercizio e lo stesso allungava il passo giungendo in via ove si
fermava e iniziava a colpirmi, prima con gli  arti  superiori  e  poi
prendendomi a calci. Preciso che prima che il soggetto mi colpisse mi
diceva «Non ho i  documenti,  lasciami  andare».  Riuscivo  a  parare
qualche colpo e a calmarlo. Lo invitavo a rientrare per mostrarmi  lo
scontrino della merce: una volta all'interno lo stesso continuava con
l'azione violenta iniziando a colpirmi nuovamente e  ne  nasceva  una
colluttazione terminando a terra ove ci rotolavamo e  nella  foga  il
soggetto mi strappava la maglia che  indossavo.  L'uomo  si  rialzava
riuscendo ad uscire dal supermercato; prima di uscire  mi  minacciava
verbalmente con le seguenti parole: «Se chiami la polizia torno e  ti
ammazzo con le mie mani e tu qui non ci lavorerai piu'».  Dopo  pochi
minuti giungeva una volante della Polizia di Stato  che  prendeva  in
consegna il soggetto». 
    Le immagini del sistema di videosorveglianza (relative alle  sole
fasi svoltesi  all'interno  del  pubblico  esercizio)  confermano  la
narrazione del B. 
    Il verbale di arresto,  infine,  precisa  che  la  refurtiva  era
costituita da un cartone di dodici bottiglie di olio d'oliva che  si'
trovavano in vendita al prezzo complessivo di 44,00 euro. 
    Alla stregua degli elementi sopra riportati deve concludersi  che
l'imputato, subito dopo la sottrazione delle dodici bottiglie d'olio,
affrontato dal sorvegliante B. lo colpi' e lo minaccio' al  fine  non
tanto di assicurarsi  il  possesso  della  cosa  sottratta  (e'  poco
probabile che egli pensasse di potersi allontanare con un cartone  di
dodici bottiglie nonostante che il sorvegliante gli fosse addosso) ma
di conseguire l'impunita' (significativa al riguardo e'  la  fase  da
lui pronunciata e riferita dal sorvegliante:  «Non  ho  i  documenti,
lasciami andare»). 
    Sussistono dunque tutti gli elementi sostitutivi  del  contestato
reato di  rapina  impropria  consumata,  e  questo  giudice  dovrebbe
affermare  la  penale  responsabilita'  del  D.  F.  determinando  la
sanzione  irroganda  (salva  la  diminuente   conseguente   al   rito
processuale adottato)  all'interno  della  cornice  edittale  di  cui
all'art. 628 comma 1 codice penale, le cui sanzioni sono  richiamate,
in maniera «automatica», dal comma 2. 
    Prima di emettere la  sua  decisione,  tuttavia,  questo  giudice
ritiene necessario il pronunciamento della Corte costituzionale sulla
compatibilita' della norma di cui all'art. 628 comma  2  c.p.  con  i
principi fondamentali della nostra carta costituzionale. 
    E' noto che da sin da  epoca  remota  la  dottrina  dubita  della
ragionevolezza della stessa esistenza del delitto di rapina impropria
come figura autonoma di' «reato complesso»  (art.  84  c.p.)  che  si
sostituisce ai reati di'  furto  e  violenza  privata.  Ha  suscitato
critiche, in particolare, l'identita'  di  trattamento  sanzionatorio
per due fattispecie - la rapina propria e quella impropria - che  sia
nella  coscienza  comune,  sia   nell'analisi   criminologica,   sono
avvertite come assai diverse tra  loro,  e  connotate  da  differenti
gradi di disvalore. 
    Queste perplessita' si sono accresciute dopo  l'inasprimento  del
trattamento sanzionatorio introdotto con  la  legge  n.  103  del  23
giugno 2017 - che ha portato il minimo edittale della pena  detentiva
di cui all'art.  628  comma  1  codice  penale  ad  anni  quattro  di
reclusione - ed hanno assunto aspetti di vera e propria drammaticita'
dopo l'entrata in vigore della legge n. 36 del 2019, che innalzato il
predetto minimo editale ad anni cinque di reclusione:  nulla  le  due
citate novelle legislative hanno  innovato  per  quanto  concerne  il
comma 2 dell'art. 628 codice penale e  l'»effetto  di  trascinamento»
che esso prevede. 
    Il descritto assetto normativo, a sommesso avviso di' chi scrive,
presenta alcuni «punti di frizione» con i valori costituzionali. 
    a) Violazione dell'art. 3 Cost. 
    La violazione del principio di uguaglianza risulta palese ove  si
considerino i diversi modi in cui puo' atteggiarsi  il  rapporto  tra
l'aggressione al patrimonio (=sottrazione di' cosa mobile  altrui)  e
l'aggressione alla persona (=violenza o minaccia): 
        al comma 1 dell'art. 628 codice penale  (rapina  propria)  la
legge prevede, e punisce con pene giustamente severe,  la  situazione
in cui la violenza precede la sottrazione della cosa  altrui  (ovvero
e'  ad  essa  contemporanea):  il  rigore  del  legislatore  e'   qui
pienamente  giustificato  perche'  colpisce  un   soggetto   che   ha
dolosamente premeditato, come strumento fondamentale della sua azione
delittuosa, l'aggressione all'incolumita' fisica altrui.  Il  delitto
di rapina propria si connota dunque, quanto  all'elemento  oggettivo,
per il ruolo fondamentale dell'aggressione  alla  persona,  la  quale
costituisce il primo approccio dell'agente alla vittima; 
        quanto all'elemento psicologico si connota per un  allarmante
atteggiamento della volonta', che non esita a progettare l'uso  della
violenza alla persona a fini patrimoniali; 
        nel comma 2 la situazione di fatto e' profondamente  diversa:
qui l'agente  ha  deciso  di  perseguire  la  finalita'  di  illecito
arricchimento in maniera non violenta, ma per cosi' dire, clandestina
(«furtiva», appunto); l'uso della violenza o minaccia, scartato  come
prima  opzione,  si   verifica   quando,   immediatamente   dopo   la
sottrazione, il ladro viene scoperto (sia il fine  di  assicurare  il
possesso della  refurtiva,  sia  quello  di  conseguire  l'impunita',
presuppongono  necessariamente  che  taluno  si  sia  accorto   della
condotta furtiva in atto): ecco allora che  l'uso  della  violenza  o
minaccia, escluso in prima istanza dall'agente, viene per cosi'  dire
innescato dalla reazione della vittima o di terzi che intervengano in
suo ausilio (per lo piu', ma non necessariamente, la forza pubblica):
a quel punto puo' accadere che la tensione  istintiva  alla  liberta'
induca a condotte violente che in origine si erano volute evitare. 
    In sintesi, il fatto che la violenza segua  alla  sottrazione,  e
non la preceda, non sembra poter essere considerato  irrilevante  dal
punto di vista criminologico: esso demarca una diversa e  meno  grave
struttura oggettiva del reato e un atteggiamento  soggettivo  che  e'
diverso quanto a intensita' del dolo e  capacita'  a  delinquere.  Ad
avviso di chi scrive, pertanto,  la  piena  equiparazione  delle  due
situazioni  sul  piano  della  «risposta»   dell'ordinamento   penale
costituisce una parificazione arbitraria, che  non  tiene  conto  del
diverso disvalore delle due condotte esaminate. 
    Il raffronto dei due primi  commi  dell'art.  628  codice  penale
rivela poi che la disciplina della rapina  impropria  e',  per  certi
versi,  addirittura  deteriore  per  l'imputato  rispetto  a   quella
prevista per la - certamente piu'  grave  -  rapina  propria:  ci  si
riferisce all'ipotesi del tentativo. 
    Perche' si abbia rapina propria consumata e'  richiesto  -  cosi'
come per il furto - che l'agente realizzi sia  la  sottrazione  della
cosa  mobile  altrui  (e  cioe'  la  amotio  dalla  sua  collocazione
originaria), sia  l'impossessamento  della  cosa  medesima  (e  cioe'
l'acquisizione di una signoria piena e autonoma su di  essa).  I  due
momenti   sono   cronologicamente   successivi,   nel    senso    che
l'impossessamento  segue  sempre,  sia  pure  di  un  istante,   alla
sottrazione; si pensi al classico esempio del furto di sacchi  da  un
autocarro in corsa: prima vi e' il getto dei sacchi  sull'asfalto  da
parte  dei   malviventi   (sottrazione),   poi   il   loro   recupero
(impossessamento). 
    Cio' premesso, si  notera'  che  mentre  nel  caso  della  rapina
propria (comma 1) si ha consumazione soltanto laddove l'agente  abbia
conseguito con violenza anche  l'impossessamento  della  cosa  mobile
altrui, residuando altrimenti solo una responsabilita'  a  titolo  di
tentativo, nel  caso  della  rapina  impropria  e'  sufficiente  alla
consumazione l'uso di violenza dopo la  sola  sottrazione:  il  testo
della norma non  lascia  dubbi  in  proposito  perche'  espressamente
prevede l'inflizione della stessa pena del comma  1  a  «chi  adopera
violenza  o  minaccia  immediatamente  dopo   la   sottrazione,   per
assicurare ecc. ecc.» 
    Si tratta di un punto assolutamente certo,  ribadito  di  recente
dalle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione con la  sentenza
n. 34952 del 19.4 / 12.9.2012, RV 253153 (pag. 13): 
        «Il comma secondo dell'art. 628 codice penale fa  riferimento
alla sola sottrazione  e  non  anche  all'impossessamento,  cio'  che
conduce a ritenere che  il  delitto  di  rapina  impropria  si  possa
perfezionare anche se il reo usi violenza dopo  la  mera  apprensione
del bene, senza il  conseguimento,  sia  pure  per  un  breve  spazio
temporale, della disponibilita' autonoma della stessa.» 
    Ne'  il  quadro  normativo,  ne'  l'elaborazione   dottrinale   e
giurisprudenziale giustificano in qualche  modo  questa  difformita',
che ad avviso dello scrivente costituisce una ulteriore irragionevole
disparita'  di  trattamento  (in  peius)  fra   situazioni   che   il
legislatore aveva inteso equiparare. 
    E' bene aggiungere, infine, che  tale  ingiustificata  disparita'
assume specifico rilievo nella presente vicenda: si e' visto infatti,
piu' sopra, che il D. F. colpi' e minaccio' il sorvegliante B. mentre
stava tentando di allontanarsi con il cestino contenente le bottiglie
d'olio, quando cioe' aveva bensi'  sottratto  le  bottiglie,  ma  non
aveva ancora acquisito su di esse una  piena  ed  autonoma  signoria:
nondimeno  egli  dovrebbe  essere  ritenuto  responsabile  di  rapina
(impropria) consumata. 
    La disposizione dell'art. 628 comma 2  codice  penale,  oltre  ad
equiparare ingiustamente situazioni  di  fatto  diverse,  rivela  una
ulteriore disparita' di trattamento laddove la situazione dell'autore
di una rapina impropria - cioe' colui che  usa  violenza  o  minaccia
immediatamente dopo la sottrazione - sia raffrontata  con  quella  di
chi commetta dapprima un furto e poi, dopo un tempo apprezzabile, usi
violenza o minaccia per conservare la cosa sottratta  e/o  conseguire
l'impunita': e' il caso, comune nella prassi, del ladro  d'auto  che,
guidando l'auto da lui rubata qualche ora prima, forzi  un  posto  di
blocco. In quest'ultimo caso la contestazione del reato di rapina  e'
assolutamente preclusa perche' manca  la  successione  immediata  fra
sottrazione e violenza, e il reo si vedra' contestare  i  meno  gravi
delitti di furto e resistenza a P.U.. 
    La differenza tra le due  situazioni  risiede  unicamente  in  un
«problematico» elemento temporale: nel  primo  caso  la  violenza  e'
esercitata «immediatamente  dopo»  la  sottrazione,  nel  secondo  e'
commessa dopo il trascorrere  di  un  tempo  piu'  lungo.  La  prassi
giudiziaria quotidiana mostra cosi' la pubblica  accusa  impegnata  a
dimostrare  che  la  violenza  e'  seguita  alla   sottrazione   dopo
brevissimo  intervallo,  e   la   difesa   impegnata   a   presentare
quell'intervallo come assai lungo. 
    Ad avviso di chi scrive occorre invece affrontare  una  questione
diversa: e' ragionevole la disparita' di trattamento  dell'autore  di
un furto a  seconda  che  egli  -  ceteris  paribus  -  usi  violenza
immediatamente dopo la sottrazione ovvero a distanza  di  un  maggior
tempo da essa? Il diverso trattamento giuridico rispecchia una  reale
differenza - sul piano criminologico o, se si  vuole,  assiologico  -
tra le due situazioni di fatto? 
    Chi  scrive   ha   cercato,   nella   produzione   dottrinale   e
giurisprudenziale, una riflessione che tenti di spiegare  in  qualche
modo la maggior gravita' - postulata dal legislatore  -  della  prima
ipotesi rispetto alla seconda; ma si e' trattato di ricerca  vana,  a
cominciare dal fondamentale  trattato  del  Manzini.  Pare  a  questo
giudice  che  la  maggiore  o  minore  distanza  cronologica  tra  la
sottrazione  e  l'uso  della  violenza  sia  un  aspetto   totalmente
irrilevante sotto  il  profilo  della  gravita'  della  condotta:  in
entrambi i casi si hanno un attacco al patrimonio e un  attacco  alla
persona di identica gravita' sia sul piano oggettivo che  soggettivo.
Che differenza c'e' tra la condotta del ladro di una  bicicletta  che
si divincoli dal proprietario intervenuto subito dopo la sottrazione,
e quella del medesimo  ladro  che  si  divincoli  nello  stesso  modo
essendosi casualmente imbattuto nel proprietario qualche ora dopo? 
    La disposizione dell'art. 628 comma 2 codice penale sembra dunque
in contrasto con l'art. 3  Cost.  anche  perche'  tratta  in  maniera
diversa situazioni di fatto che sul piano della condotta,  del  dolo,
del pregiudizio alle vittime  e  di  ogni  altro  aspetto  penalmente
significativo sono identiche. 
    Nei paragrafi  seguenti  si  porra'  in  rilievo  come  l'attuale
disciplina normativa della rapina impropria, se  raffrontata  con  la
disciplina applicabile quando la violenza  non  segue  immediatamente
alla sottrazione, comporti la lesione di almeno  due  altri  principi
costituzionali fondamentali; 
    b) Violazione dell'art. 25 comma 2 Cost. 
    Come e' noto, con il suo espresso richiamo  al  «fatto  commesso»
l'art. 25  comma  2  della  nostra  carta  costituzionale  ha  inteso
riconoscere  rilievo  fondamentale,  a  fini   punitivi,   all'azione
delittuosa  per  il  suo  obiettivo   disvalore.   Ne   discende   la
costituzionalizzazione del «principio di offensivita'»,  che  implica
la necessita'  di  un  trattamento  penale  differenziato  per  fatti
diversi e,  a  monte,  la  necessita'  di  distinguere,  in  sede  di
redazione  delle  norme  penali  incriminatrici,  i   vari   fenomeni
delittuosi per le  loro  oggettive  caratteristiche  di  lesivita'  o
pericolosita'. 
    L'attuale disciplina giuridica della  situazione  in  cui  taluno
debba rispondere di un furto, e di una violenza privata (o resistenza
a P.U.) commessa non immediatamente dopo al  fine  di  conseguire  il
possesso della refurtiva o l'impunita', e' palesemente rispettosa  di
questo principio. 
    Per il furto e' prevista infatti una pena minima edittale di  sei
mesi di reclusione piu' multa, che si eleva  vistosamente  nelle  due
gravi  ipotesi  di  cui  all'art.  624-bis  codice  penale   e   puo'
eventualmente subire l'incidenza delle numerose aggravanti specifiche
di cui all'art. 625 codice penale. Per quanto attiene  alla  violenza
che segue alla sottrazione, l'art.  610  codice  penale  consente  di
graduare la pena detentiva da quindici giorni fino  a  quattro  anni,
mentre l'art. 337 codice penale (ove la vittima della violenza sia un
pubblico ufficiale) prevede  pene  da  sei  mesi  a  cinque  anni  di
reclusione. Esiste dunque un corpus di disposizioni assai dettagliate
ed evolute che consentono di ragguagliare la  sanzione  all'effettiva
gravita' del fatto concreto in tutte le sue sfaccettature. 
    La disposizione di  cui  all'art.  628  comma  2  codice  penale,
invece, si caratterizza per una vistosa  indifferenza  rispetto  alle
caratteristiche concrete del fatto: qualunque sottrazione, quando sia
immediatamente seguita da violenza o minaccia,  ancorche'  lievi,  e'
reputata  dal  legislatore  meritevole  di  almeno  cinque  anni   di
reclusione. Alla stregua dell'art. 628 comma 2 codice penale,  se  un
tentativo di furto e' seguito da un atto violento o  minatorio  tutte
le sopra elencate particolarita' vengono «azzerate», e non v'e'  piu'
differenza, ad esempio, se la violenza segue al furto di una  costosa
autovettura commesso con effrazione sulla pubblica via, ovvero  segue
al fiuto semplice di qualche bottiglia d'olio in un supermercato.  La
disposizione in esame, in altre parole, si  rivela  una  disposizione
«rozza» in cui tutto viene sacrificato sull'altare della esemplarita'
sanzionatoria. 
    c) Violazione dell'art. 27 Cost. 
    Viene in rilievo particolarmente il comma 2, secondo cui «le pene
non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita' e
devono tendere alla rieducazione  del  condannato».  La  formulazione
della norma, come e' noto, richiama e costituzionalizza il  principio
di proporzionalita' della pena (nelle sue due funzioni retributiva  e
rieducativa), perche' una pena sproporzionata alla gravita' del reato
commesso da un lato non puo' correttamente assolvere alla funzione di
ristabilimento della legalita' violata,  dall'altro  non  potra'  mai
essere sentita dal condannato come rieducatrice: essa  gli  apparira'
solo come brutale e irragionevole vendetta dello stato,  suscitatrice
di ulteriori istinti antisociali. 
    Ad avviso di chi scrive l'inflizione di cinque anni di reclusione
piu' multa per la sottrazione di qualche  bottiglia  seguita  da  una
colluttazione col sorvegliante di un  supermercato  non  puo'  essere
considerata una risposta sanzionatoria  proporzionata.  Cio'  risulta
particolarmente vero ove si raffronti la  condizione  dell'autore  di
una rapina impropria - ancora una volta  -  da  un  lato  con  quella
dell'autore di una  rapina  propria  (che  cioe'  ha  consapevolmente
scelto ab initio di usare violenza alla persona), dall'altro  con  la
condizione di chi abbia usato violenza alla persona in un momento non
immediatamente seguente alla sottrazione, e che  percio'  rispondera'
di furto e violenza privata. 
    Va a questo punto chiarito quale sia l'auspicato intervento della
Corte costituzionale. 
    Le considerazioni sopra  svolte  dimostrano,  ad  avviso  di  chi
scrive, come il nostro ordinamento penale  non  abbia  alcun  bisogno
della iniqua disposizione dell'art. 628 comma 2 c.p.:  le  norme  che
disciplinano le varie ipotesi di furto (consumato o tentato, semplice
o  aggravato)  consentono  una  repressione  penale   adeguata   alle
caratteristiche delle varie possibili condotte predatorie, mentre  le
disposizioni in  tema  di  violenza  e  minaccia  come  strumento  di
coazione dell'altrui volonta' (articoli 610 e  337  c.p.)  consentono
parimenti un'adeguata repressione della successiva condotta  violenta
del ladro, sia che essa segua immediatamente  alla  sottrazione,  sia
che sia attuata dopo un tempo piu' lungo. Ove si obietti  che  questa
soluzione normativa  comporterebbe  un  arretramento  della  risposta
dello stato al delitto, va risposto che la stragrande maggioranza dei
processi per rapina impropria concerne, come e' noto a chi amministra
da tempo la  giustizia  penale,  episodi  di  modestissima  gravita',
rispetto ai' quali la sanzione minima di cinque  anni  di  reclusione
appare vistosamente sproporzionata, mentre per  i  pochi  episodi  di
piu' elevato allarme  sociale  la  prudente  applicazione  giudiziale
delle norme sopra citate, e  un  giusto  e  consapevole  Governo  dei
criteri di determinazione della  pena  di  cui  all'art.  133  codice
penale, assicurano un trattamento sanzionatorio equo. Il tutto  senza
considerare che per le due piu' allarmanti  tipologie  di  furto  (il
furto in luogo di privata dimora  e  il  furto  con  strappo)  l'art.
624-bis codice penale, dopo la novella introdotta con la citata legge
36/2019  prevede  gia'  una  pena  detentiva  edittale  minima  assai
prossima a quella prevista dall'art. 628 codice penale. 
    Questo giudice chiede pertanto che la Corte costituzionale voglia
condividere  i  rilievi  di  incostituzionalita'  sopra   esposti   e
dichiarare  sic  et   simpliciter   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 628 comma 2 codice penale, fermi restando tutti i rimanenti
commi del medesimo articolo, cosi'  rendendo  applicabili,  a  quelle
ipotesi  che  attualmente  si  configurano  come  casi   di   «rapina
impropria», le disposizioni di cui agli articoli da 624 a 626  codice
penale e agli articoli 610 e 337 codice penale.